La memoria delle piante - Lettori

Volentieri ripresento qui, con lo stesso titolo, la recensione apparsa sulla rivista L'Ospite ingrato. v.a. 18 aprile 2024.

Mavì De Filippis

La memoria delle piante

Ho tra le mani il libro di Velio Abati, come tante altre volte. Lo apro e leggo, mi sorprende incredula: mi pare nuovo mai letto prima. Eppure mi dico l’ho già letto prima, e prima ancora. Vado avanti, cambio capitolo, torno indietro: le situazioni, le persone cambiano, l’unità è data dal ritmo, dal passo lento. Il linguaggio è aderente a ciò che si viene raccontando, lingua raffinata sia quando attinge al parlato quotidiano sia quando usa parole antiche e desuete o auliche.

L’abito del docente Velio non lo ha mai dismesso, è il suo modo di leggere la realtà, di interpretare l’idea di un comunismo moderno e colto. Da quando non è più insegnante nelle scuole superiori gli resta la scrittura per svolgere la sua volontà e capacità educativa. I suoi libri e le sue attività richiedono un pubblico, un pubblico partecipe, attivo, capace di farsi coinvolgere.

L’attenzione con la quale è stato accolto il suo ultimo lavoro ci induce a credere che si incominci a sentire l’esigenza di qualcosa di diverso, di distante dal becero chiacchiericcio insulso di una quotidianità in cui si comunica per figurine che evitano di esprimersi con il linguaggio. Le recensioni a quest’ultimo libro di Velio sono attente alla ricchezza dei contenuti e alla varietà linguistica: l’autore ci aveva già abituati a ciò negli altri suoi libri, ma in questo romanzo è ancora più rilevante. Forse oggi il lettore prenderà gusto a leggere queste pagine non sempre semplici, ma tali che ripagano dello sforzo di mettersi in ascolto.

Se Domani (Manni, 2013) era un romanzo che si dispiega nel tempo lentamente, La memoria delle piante (Manni, 2023) è, apparentemente, un racconto breve, potrebbe essere definito, per le dimensioni, un libriccino. Ma l’apparenza inganna. E qualcuno potrebbe pensare che sia un’opera fuori del genere “romanzo” cui dice di appartenere, perché vi si trovano riflessioni apparentemente divaganti su elementi come lo spazio, il tempo, la verità; ma si ingannerebbe e ingannerebbe chi lo seguisse. Le affermazioni di Abati non sono mai concetti astratti, bensì partono dal vissuto e rimangono ben radicate nel tessuto agrario che non solo è il mondo da cui l’autore viene, ma è anche, se non soprattutto, allegoria del mondo degli ultimi, degli umili o se si preferisce delle classi subalterne. Velio appartiene a quel mondo, ma abbracciando il lavoro del docente dà senso, significato anche al lavoro nei campi. Il lavoro viene descritto senza enfasi o rimpianti, ma con una particolare attenzione alle stagioni che vengono, passano e ritornano. Di qui prende vita la pagina intensa in cui, si dice, la verità non è pietra, la verità è fuoco, che avvampa, brucia, esiste in quanto scinde e incenerisce ciò che la fa essere, è verità storica mai data una volta per sempre, frutto della lotta e proprio per questa vera, dove folgora il germoglio di un possibile domani.

Prestiamo attenzione ai termini usati per descrivere la campagna: sterpi, rovi, terra difficile da dissodare; le notti del riposo sono brevi, interrotte dal richiamo al lavoro; la luce spesso è dell’inizio dell’alba o del tramonto, oppure è il sole infocato che arde su chi sta lavorando nei campi. Scelgo qua e là qualche frase per aiutare chi mi sta leggendo a farsi una prima idea di quello che vado sottolineando:

L’aria non ha più colori, né giorno, né notte ancora. Il vento è calato di colpo, neanche il passero vola. Il silenzio è ora completo: il respiro è troppo.

Figure di dolore straziano i giorni, uno dietro l’altro, fino al respiro dell’alba.

Non era ieri che la voce pacata di padre mi svegliava con breve richiamo, come di scusa, di chi già dalle coste brecciose del Podere del Diavolo sa la fatica?

Nella capanna è sceso il silenzio.
Solo lo sfrigolio della fiamma e il sonno dei tuoi fratelli e sorelle, ancora troppo giovani, ci mentova il mondo.
Nessuna tregua hanno dato oggi le folate d’Aquilone, gelide tra i panni, attente a raccattare intorno rami secchi. Dopo giorni d’acqua, hanno spurito il cielo. Tu, da questa ripa magra e sassosa, ripigliando fiato hai indicato di nuovo, in fondo all’orizzonte, il nostro piano fertile, sottile da quassù, tra la luce del mare e del padule.

Il disegno dei luoghi è tracciato con cura cosicché il lettore ne fa conoscenza, i luoghi sono descritti ancora senza le persone che vi lavorano. Presto però il lavoro nei campi, come ho già accennato, viene anch’esso descritto, raccontato con la massima attenzione al concreto, alle varie fasi dalla semina al raccolto. Molti sono i protagonisti: Nato, il maestro Narciso, Lorediano, Raffaella, Ambra, quest’ultima, in particolare, con la sua femminilità calda appartiene a una Natura accogliente e pacificante.

Hyso e Camara sono figure centrali per comprendere il mondo del lavoro. Sono figure della stessa medaglia. Le pagine in cui si descrive Hyso attraverso le sue stesse parole richiede qualche ampia citazione per restituire il clima assai difficile in cui si trovano i datori di lavoro e chi è costretto ad “acconsentire” alla sottomissione pur di guadagnarsi il pane. Si tratta del capitolo «Figure di dolore», che potremmo anche intitolare a Camara. Capitolo straziante, descrive una ricerca affannata e presaga della fine di Camara. È il capitolo in cui il dolore del lavoro si squaderna completamente nei due lati: sia in quello del caporale sia in quello di Camara preso a emblema del lavoratore nei campi agricoli.

Già quando era uscito dalla vampa dei tendoni era più pallido dello stradone polveroso, mi hanno detto. Qualcuno all’ultimo l’ha sorretto, ha chiesto dell’acqua per bagnarsi i capelli e il collo.
Riposati carne tenera, fiore celeste e superbo, fiore di cardo nel campo.
Troppo grande è il mare profondo. Qui intorno solo il vento dei monti fischia e ulula. Riposati carne tenera, fratello, figlio dolcissimo. Niente sarà dimenticato.

Dov’è il figlio mio fiorito? Ha, da quanto non si sente?
Chi t’ha preso dolce palma? Tu sperso tra la gente.
Chi ti scalda nella notte, te vita mia dolente?

Altrettanto significative le pagine dedicate alla figura del caporale:Hyso arriva quando già disperavo. La mattina, in fretta, m’aveva dato appuntamento all’entrata del paese, dove nei giorni di festa o di pioggia alcuni di noi si ritrovano. Lo riconosco da lontano dal suo furgone nuovo. Sì mama, Hyso non si sopporta, a volte gli sputerei sul muso, ma è l’unico che sa, l’unico che parla. Mi tira al bar, mi vuole seduto. Si diverte a darsi arie, a pagare un’aranciata.

Sì sono un caporale, quelli che chiamano fuori legge perché non campano d’aria. Non c’è verso, mama, di fermarlo l’unica notizia che mi preme da lui, la devo pagare in questo modo. Mi rassegno.

Da chi vanno a chiedere aiuto, quando le mele o l’insalata diventano fango del campo, quando arriva la stagione di capare gli acini nell’uva da tavola, o la raccolta delle olive? Chi sa dove mettere le mani per trovarti un lavoro? Rimane zitto, come se dovessi rispondergli. Gratis, dovrei farlo? E gratis portarti con il furgone? La licenza dovrebbero darci! Io, si batte forte con il dito, io ho studiato, sono andato all’università nella capitale del mio paese. Poi ho capito che il mio avvenire era qui. Il caporale come dico io è un lavoratore sveglio che ha fatto strada e nessuno può pigliarlo per il culo, perché sa di che parla.

Io a quelli, che ci buttano merda addosso manco rispondo al saluto. Ai loro padroni, se s’azzardano di venire a chiedermi, volto il culo. Lontano! Come dalla peste, perché è una catena. La rapina dei padroni che lesinano all’osso paghe impossibili attira caporali ingordi e delinquenti pronti a spellare squadre arraffate tra gli scarti. Si sentono dio, se ne fregano di tutto e di tutti. Non lasciano occasione, come i loro padroni, di pisciare addosso ai loro uomini, trattati peggio delle bestie. O prendi, o lasci. Ma lo sanno che significa o prendi o crepi di fame. O prendi o prendi, ecco qual è la loro legge.

Orgoglioso del suo ruolo e del modo in cui lo conduce, consapevole anche di quanto altri con il suo stesso ruolo siano ingordi e delinquente.

Accanto o sopra tutti i protagonisti c’è Celso con suo padre. Celso fin da ragazzino è andato come garzone, ha sempre lavorato ma mai diresti che sia o sia stato succube, riflette, pensa, critica e soprattutto dubita. Le riflessioni sul tempo, la storia, la verità nascono, prendono forma, urgenza di essere esplicitate da una rabbia per come gli accadimenti accadono, detto in altri termini, contro la subordinazione. Sono certamente riflessioni dell’autore, ma non solo perché nascono in quel contesto, nascono e sono radicate nel mondo del lavoro che si è fatto atroce per responsabilità di chi ne è a capo. E, quando ci si fa interpreti di come tutto sia umano, cioè storico, si arriva a capire che la lotta porta con sé la verità, una verità, si è già detto, storica, mutevole.

…non c’è modo di uscire da noi, se non morendo; anche l’inarticolato, il caotico che più si possono immaginare, la più bestiale istintualità rimangono fatto umano -, sono in quanto significazione umana, immerse nel tempo. […] La verità non è docile chi nega Parmenide s’affanna con i fantasmi […] È, in quanto si consuma. La sua durata è la forma del tempo. Se prendiamo, non dico la storia umana, ma l’essere umano, anzi un essere umano, in lui o in lei una mirabile stratificazione di tempi ci toglie il respiro. Le verità loro proprie hanno durate assai diverse, ma nessuna è fuori dal suo tempo. […] La verità, ogni verità è storica il vero in un certo tempo e luogo cessa di esserlo in un altro. […] La verità non è un dato; è il prodotto della lotta, né, Minerva, nasce intera dal capo augusteo.

Non riposi dunque il vincitore, né disperi lo sconfitto; le verità non si mettono in fila tanto meno le loro guglie, coste e burroni seguono la linea millenaria di cresta dei dominanti.

Anche il capitolo «I panni erano già stati preparati», con la morte di uno dei protagonisti, conduce a riflessioni generali sulla morte.

Anche un inno di morti deve essere l’inno del mattino. Alla nostra parte non è concesso – già i greci l’hanno mostrato – il lavacro della tragedia. Dico e non riesco a sostenerne l’altezza.

Dalla tragedia il dolore non sgorga, se a morire è un inetto o un insignificante, da cui, tuttalpiù, può provenire pena. Solo il forte spezzato da altro più forte suscita il pianto; le lacrime qui non lavano il male interiore. Sono l’omaggio all’ipocrisia di chi gode del potere di assegnare al servo la morte sociale e biologica, che, proprio per questo è messo fuori scena. Così, anche quando in certe svolte della storia o per impeto dello scrittore, vengono fatti vestire i panni della tragedia anche al dominato, l’opera diventa altro o, semplicemente, falsa.

Questo libro è un affresco sulla vita, il lavoro, la subordinazione. Vi sono echi letterari non espliciti, non dichiarati, quasi certamente inconsapevoli perché le letture fatte, gli studi condotti nell’arco di una vita divengono materia fertile che si amalgama in chi scrive. Ci sono echi danteschi, manzoniani e foscoliani (quando si legge che solo il forte suscita pianto, non si può non andare con la mente ai versi di Foscolo: «A egregie cose il forte animo accendono / l’urne de’ forti»), e fortiniani in un’ottica generale di un comunismo colto e in fieri. Infine: aver dedicato il libro a un collega, Roberto Bongini, è assai significativo del solido raccordo tra l’esperienza famigliare nelle campagne toscane e il lavoro di insegnante di Velio Abati.

Siria Corradini

La memoria delle piante

 In La memoria delle piante viene data voce alla storia, spesso purtroppo silente, di tante famiglie italiane. Abati mette in luce episodi di vita rurale non troppo diversi da quelli che i miei nonni mi hanno raccontato, ma che tuttavia non ho mai avuto modo di studiare sui libri di storia. Il lettore si immerge nelle vicende raccontate e sente di potervi partecipare in silenzio, guardando le scene da lontano, quasi come se potesse tornare indietro nel tempo per assistere alla quotidianità dei propri antenati, entrando di nuovo in contatto con le proprie radici, con cui, pur senza interagire direttamente, sente di riconnettersi riconoscendone i valori, non raramente calpestati dalle classi sociali superiori.

Come studentessa di lingue ho apprezzato l’affascinante plurilinguismo dell’opera, caratterizzata dalla presenza di dialetto toscano, latino, arcaismi e da uno stile, talvolta, dantesco. In questa danza linguistica ho riconosciuto il mio professore e la sua solita attenzione e passione per le forme idiomatiche, a cui dedicava una buona parte delle sue lezioni, ma si coglie anche la sua sensibilità e il pathos che lo accompagnavano nel suo insegnamento della letteratura italiana e che rendevano le sue spiegazioni così chiare e interessanti.

11 aprile 2024

 

Volentieri ripresento qui, con lo stesso titolo, la recensione apparsa sulla rivista Poliscritture di Ennio Abate. v.a. 11 marzo 2024.

Donatello Santarone

 

La copertina del romanzo di Velio Abati, La memoria delle piante, riproduce un dettaglio da un quadro di Caravaggio del 1597, dal titolo ironico Buona ventura, in cui ad un primo sguardo ci sembra di vedere due mani che fraternizzano, ma poi, analizzando il particolare nel contesto dell’opera, scopriamo la scena di una giovane zingara la quale, mentre legge la mano ad un nobile cavaliere, gli ruba l’anello che porta al dito. Oltre ad un’allegoria di tipo morale – non farsi ingannare dalle apparenze, non cedere alle seduzioni – credo che per Abati ce ne sia una di tipo storico, direi socio-economico: la legittimità da parte delle classi subalterne a riappropriarsi delle ricchezze che le classi dominanti hanno nei secoli sempre sottratto ai dominati con la violenza dello sfruttamento. Il gesto della zingara, in questa prospettiva, non è quindi il gesto di una ladra, ma quello di un soggetto storico finalmente autonomo e consapevole, ed è emblematico, tra l’altro, che si tratti di una donna, che pretende un risarcimento, che rivendica una giustizia.

Se questa interpretazione è plausibile, allora anche il titolo si chiarisce nel suo significato più profondo: la memoria delle piante non allude alla nostalgia di un sogno bucolico ma ai vissuti storico- naturali dei milioni di senza nome non riconosciuti che hanno attraversato nel corso della storia le opere e i giorni. “Però - scrive l’autore - c’è un’altra memoria, altra vita germoglia, che chi domina conosce assai bene, nonostante che con altri nomi la dica, perché in essa ha radici e, se interrogato, la tratti non diversamente da ossa del paleontologo. E’ la stessa memoria delle piante, delle rughe della terra, del corpo di chi passa per strada. E’ nelle parole che senza fatica conosci, nei colori che vedi nella levata del sole, nell’occhio che guarda chi incontri.” (p. 101). Dove va subito notata la curvatura poetica, lirica della prosa, attraverso il chiasmo iniziale, “c’è un’altra memoria, altra vita germoglia” e il ricorso ad un andamento ternario, metricamente scandito, che vuole evocare e prefigurare attraverso la bellezza della forma e pur nella durezza della storia, un mondo di relazioni e di futuro.

Ma accanto ad una memoria storico-sociale è presente anche una memoria personale, esistenziale: quella del padre, parola che compare una sola volta nel libro: “Come libellula, padre, sei passato.” (p. 53). In tutto il testo è invece presente con numerosissime occorrenze la parola “babbo”, a voler accentuare, attraverso il toscanismo, la dimensione domestica, affettiva oltreché di insegnamento morale e materiale del padre così centrale in tutto il romanzo.

Mi accorgo di aver utilizzato la parola “romanzo”. Ma ripensandoci bene, più che romanzo definirei La memoria delle piante uno zibaldone di squarci lirico-evocativi, di pensieri narrativi, di riflessioni narrate. Un intreccio di micro racconti tenuti insieme da un io narrante che ricorda e argomenta. Una stratificazione di registri percorsi sempre dallo sguardo degli ultimi del mondo. Tutti espressione del mondo contadino maremmano: qui non ci sono gli operai dell’industria, i salariati del capitalismo moderno. Ma i contadini, come ho già accennato, sono rappresentati senza nessuna nostalgia ruralista, nessuna mitizzazione di una presunta incorrotta identità contadina. Per Abati i contadini sono nostri contemporanei.

Tutto questo richiama un confronto con il romanzo maggiore di Velio Abati, dal titolo Domani, una narrazione lunga, distesa, densa in cui si mette in scena l’epopea dei subalterni. La memoria delle piante, rispetto al romanzo maggiore, è forse più contratto, più gridato nelle parti argomentative, nelle riflessioni storico-politiche. Mentre le narrazioni di vita contadina sembrano “schegge” corpose uscite dal romanzo maggiore. Anche se qui con una più evidente dimensione autobiografica.

Un’ultima considerazione sulla lingua. La sintassi mi sembra molto sorvegliata, colta, spesso di tono alto, pur se con frequenti andamenti “regionali”. Il lessico, invece, è fortemente attraversato da un fitto e ricorrente ricorso a parole del mondo agrario, da parole tecniche o arcaiche, dal dialetto maremmano e toscano.

 

Volentieri ripresento qui, in una versione in parte modificata, ma con lo stesso titolo, la recensione apparsa sulla rivista Nazione Indiana. v.a. 6 marzo 2024.

Massimo Parizzi

Si levano i morti

“Si scopron le tombe, si levano i morti; / I martiri nostri son tutti risorti.” Benché per gli inni, specie patriottici, provi in genere avversione, questi primi versi dell’Inno di Garibaldi mi hanno sempre convinto e commosso. Perché è vero: i “martiri” possono “levarsi”, se chiamati dal presente o dal futuro; sono sempre lì in muta attesa, o muta finché non li si ascolta. Ogni epoca, comunità, gruppo umano sceglie i propri. Come sceglie i propri eroi. Anche per la cancel culture provo in genere avversione, ma non quando, per esempio, negli Stati Uniti si chiede che le statue di Cristoforo Colombo siano abbattute. Una statua rende omaggio a un eroe e lo “scopritore” dell’America, si obietta, non lo era. In effetti, era un farabutto e un uomo meschino.

Ci sono, in questo romanzo, martiri ed eroi? “Chi cerca di parlare dalla riva di chi voce non ha”, avverte l’autore, deve evitare “la postura umiliante della vittima” e, nello stesso tempo, “l’esaltazione della vittima”. Niente martiri ed eroi, quindi: soltanto morti che, scrive Abati riferendosi alla storia recente, ma vale anche per la storia meno recente, “non sono scomparsi. Assiepano discreti le nostre piazze, vegliano le nostre stanze, sanno che qualcuno li ascolta”. Morti che in questo romanzo sono tornati: “Dunque sono tornato” sono le parole con cui inizia, e “dunque siamo tornati” quelle con cui quasi finisce. Chi è tornato, da quale passato, e da dove?

            Iniziamo dalla seconda domanda: quale passato? Gli ultimi decenni del XIII secolo, i primi secoli dopo Cristo (forse la fine del II), il XX e XXI secolo, la seconda metà del XVI. Queste le epoche più o meno identificabili, e bastano per farsi un’idea di quanto La memoria delle piante sia a lungo termine. I luoghi, invece, sono quasi sempre gli stessi: Grosseto, il grossetano e la Maremma, dove l’autore è nato e vive, con puntate a Siena e nel senese e forse in Puglia, nel brindisino. E più o meno simile è lo status sociale della maggior parte dei protagonisti: contadini.

Contadini che si trovano di fronte, negli ultimi decenni del XIII secolo, a cardinali che incitano alla crociata e al “fracasso sinistro del ferro e degli zoccoli” di armati che irrompono nei campi e li devastano; o, nei primi secoli dopo Cristo, alla peste, a padroni che dividono famiglie, a scorrerie di “uomini dalle lunghe barbe”; o, nella seconda metà del XVI secolo, a “ruberie e ammazzamenti” da cui scappano per arruolarsi; o, nel nostro tempo, contadini immigrati “neri, bianchi, asiatici” sfruttati da caporali e padroni.    

Un contadino immigrato è Camara ed è per lui che, forse, il romanzo si sposta in Puglia, nel brindisino. Scomparso, suo fratello l’ha cercato ovunque, frugando “tutti i cespugli e i mucchi di rifiuti. Ma la sua bicicletta non c’era”. Ha chiesto di lui ai suoi compagni di lavoro e a due caporali, ma da questi ultimi ha ricevuto solo risposte sprezzanti. Lo trova infine “alla proda d’un fosso, dove Mario”, un caporale, “l’aveva buttato, con gli occhi ancora spalancati”. Non lo so, ma non è escluso che scrivendo questo capitolo Abati pensasse a Camara Fantamadi, 27 anni, del Mali, che il 24 giugno 2020, dopo avere lavorato per sei euro all’ora nei campi sotto il sole a una temperatura di quaranta gradi, stava tornando, anche lui in bicicletta e anche lui dal fratello, a Tuturano, nel brindisino appunto, e crollò prostrato sul bordo della strada. “Martiri” ed “eroi” o no, mi piacerebbe che Tuturano gli dedicasse un monumento.

Ma, oltre a contadini, fra i protagonisti di questo romanzo si trovano ragazzini che vanno “a garzone”, scolari e scolare, studenti e studentesse, boscaioli portati via per renitenza alla leva da uomini “con il moschetto”, donne in rivolta contro i “birri”. E, in diversi momenti, a prendere la parola è l’autore stesso: a volte autobiograficamente, per ricordare il padre, una visita a una mostra d’arte contemporanea, il passaggio di un corteo, il Sessantotto; altre per ragionare di verità e libertà, di “identità e temporalità” e della “stratificazione di tempi” nell’essere umano, cioè anche di questo libro.

Fra le parole che ricorrono spesso nel romanzo vi sono “sapere” e “silenzio”. Il bisogno di sapere (“davvero non sapere niente?”), lo stupore di sapere (“quale prodigio è questo mio sapere?”), “la fatica di dover sapere”. E nel silenzio il romanzo inizia (“il silenzio è ora completo”) e finisce (“il grano cresce silenzioso”). Quale il rapporto, se c’è, fra sapere e silenzio? La risposta più facile è che il sapere richiede ascolto e l’ascolto richiede silenzio: “Fermarsi. E ascoltare” è l’invito che rivolge a se stesso, ma sembra rivolto a noi, un personaggio. Che tuttavia subito aggiunge: “I silenzi non sono innocenti … sono la linfa della tua sottomissione”, perciò “raccòntati con gli altri, per capire con loro chi siamo”. C’è silenzio e silenzio, dunque? O, piuttosto, il silenzio che l’ascolto richiede cessa non appena l’ascolto ha inizio? Perché l’ascolto rivela che “non c’è silenzio”: “Quando ogni voce umana, come ora, è svanita” affiora “il soffio lieve del pino”. E quando sembra che “dai corpi degli olivi, dal folto dei grani” non provenga nemmeno “una cicala” o “un filo d’eco” e “nemmeno il mio grido esce di bocca”: “Sbaglio” si dice un personaggio. «Riconosco, riconosco - ah, quanto struggenti - le note sincopate. … Da dove, quel suono prorompe?”

            Un personaggio, ho scritto, perché non sempre è facile capire chi parla, chi è a dire “io”, né da che epoca venga la sua voce, né da dove. Accade, per esempio, che un capitolo ambientato nei primi secoli dopo Cristo termini con parole riprese all’inizio del capitolo successivo, ambientato nel XX secolo. Ma che la fine di un capitolo sia ripresa all’inizio del successivo accade più volte, come accade che un capitolo termini con domande cui l’inizio del successivo sembra rispondere con un “eppure”, un “invece” o altre domande. E che dei personaggi, Celso, per esempio, o Renzino, si ritrovino a pagine di distanza, ma senza che si possa dire con certezza che sono gli stessi.

            Ma non importa. O meglio, è proprio questo che importa: questo passarsi la voce, questo trasmigrare, questo infiltrarsi, questo mescolarsi, che fanno delle voci che risuonano nella Memoria delle piante una voce collettiva e, nello stesso, voci individuali. E di epoche remote, vicine, attuali, quasi la stessa epoca: “Sento intima la mano che verga incerta sulla roccia il cervo propiziato nella caccia.” Quindi “non ha il tempo un suo ordine, per quanto terribile? Non c’è un inizio e una fine a stringere per sempre un solo sviluppo?”. A queste domande del romanzo, il romanzo stesso sembra rispondere: no, non ce l’ha, non ci sono.

            Non ce l’ha e non ci sono perché, scrive Abati, «c’è un’altra memoria»: la “memoria delle piante, delle rughe della terra”, quella, si legge nella stessa pagina, cui “alludeva” “l’intellettuale che, in punto di morte, ha dettato che la vera eredità non è nei suoi libri o nel suo insegnamento, perché verranno dimenticati, ma in quanto in meglio della vita ha cambiato intorno a lui”. Tuttavia, è forte la tentazione di dare del titolo di questo romanzo anche un’altra lettura e vedere nelle “piante” i morti “senza nome” e “senza voce” che ne sono protagonisti, sempre pronti a rinascere, germogliare, fiorire, fruttificare, come le piante a ogni primavera, “la rossa primavera”, per concludere con un altro inno garibaldino, ma delle Brigate Garibaldi questa volta, del “sol dell’avvenir.”

Primavera, sole: significano anche gioia. E fa piacere che in questo romanzo, fra tante sventure e traversie, la gioia non manchi: “La furia allegra era nell’aria”. Come non mancano “squarci intensi di bellezza” che “tutto facevano dimenticare, tutto aprivano il giorno e la speranza”. Per cambiare in meglio la vita attorno a sé la gioia è necessaria. Ma, si può obiettare, com’è possibile la gioia con quello che avviene nel mondo? Proprio per questo è necessaria.

 

Volentieri ripresento qui la recensione apparsa, con lo stesso titolo, sulla rivista Parliamo di socialismo . v.a. 3 marzo 2024.

Lelio La Porta

A proposito del romanzo di Velio Abati, La memoria delle piante

“Possono parlare i subalterni?”: era una domanda posta diversi anni fa da Gayatri Chakravorty Spivak, una filosofa statunitense, di origine bengalese. La questione era originata dalla lettura del Q. 25 dei gramsciani Quaderni del carcere intitolato Ai margini della storia. Storia dei gruppi sociali subalterni. Il grande sardo non poneva la soluzione nei termini della speranza di emancipazione: piuttosto, in sintonia con una nota lettera al figlio maggiore Delio, ripercorreva la storia dell’umanità riflettendo sul fatto che essa «riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi» è cosa talmente fondamentale da impegnarci tutta la vita, tutta la passione di una vita. A questo impegno di lotta attraverso l’uso della letteratura si è dedicato Velio Abati che lo rende esplicito nel suo ultimo romanzo, La memoria delle piante (Manni, Lecce, 2023, pp. 129).

L’autore fa parlare i subalterni, che sono i veri protagonisti della storia, anzi dei secoli di storia che scorrono davanti agli occhi di chi legge. Un tempo storico che comprende il passato e il presente, ma si proietta verso il futuro e non corre il rischio di essere visto nel cono d’ombra al quale, secondo la lettura gramsciana, sono condannati gli epicurei del sesto cerchio infernale della Divina Commedia di Dante. L’io narrante, che oltre a narrare è anch’esso protagonista, si identifica del tutto in una vicenda cosmica che, pur avendo come teatro di svolgimento la Maremma, nella realtà riguarda tutti i subalterni del mondo. E nel mondo di subalterni ce ne sono a milioni.

Il racconto si sviluppa su un doppio livello: quello strettamente narrativo, dove i fatti e le situazioni si susseguono con ritmo intenso, e quello riflessivo, che rappresenta il momento in cui l’io da narrante si trasforma in dialogante, quasi in modalità agostiniana, con se stesso. Il silenzio, che è la cifra della subalternità, diventa l’urlo di una comunità che sa della propria identità ma capisce che non può realizzarla in modo totale. Ed ecco allora la descrizione della sagra di paese, un momento liberatorio in quanto di affermazione piena di un essere proprio così della comunità.

Oltre al silenzio c’è un’altra parola che ricorre nel romanzo: la guerra. Scrive Abati: «La guerra è tornata…La guerra non se n’è andata». La guerra si sovrappone al silenzio, la guerra conduce al silenzio. Eppure, se il silenzio non c’è, questo può significare che anche la guerra non c’è. Può accadere, ma «Se vinci la paura del senso comune». Eppure, a questa altezza del racconto, non può che sopravvenire il ricordo del dialogo fra il greco Mordo Nahum e Levi ne La tregua: «”Ma la guerra è finita”, obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi. “Guerra è sempre”, rispose memorabilmente Mordo Nahum».

Fra neologismi, arcaismi, dialettismi il racconto si distende, come già scritto, in un tempo lunghissimo che consente all’autore di ricorrere anche a meditazioni letterarie come avviene all’inizio dell’ultimo capitolo, I panni erano già stati preparati. Qui il ricorso a Dante prepara la strada alla definizione della memoria delle piante, ossia all’esplicitazione del senso profondo del titolo del romanzo e del senso profondo di quest’ultimo in quanto tale. Le cose vanno dette e scritte; non ci si deve riposare come Dante tenta di fare al termine dell’ascesa delle Malebolge, subito ripreso da Virgilio che lo allerta: chi passa la sua vita senza la fama, lascia sulla terra una traccia di sé paragonabile al fumo nell’aria e alla schiuma nell’acqua. Questa è memoria. «Però – scrive Abati – c’è un’altra memoria, altra vita germoglia, che chi domina conosce assai bene, nonostante che con altri nomi la dica, perché in essa ha radici e, se interrogato, la tratti non diversamente da ossa del paleontologo. È la stessa memoria delle piante, delle rughe della terra, del corpo di chi passa per strada. È nelle parole che senza fatica conosci, nei colori che vedi nella levata del sole, nell’occhio che guarda chi incontri». È la memoria di chi alla propria storia sa dare il nome adatto che non è semplicemente speranza, la quale potrebbe tramutarsi in rassegnata attesa di eventi irrealizzabili. Si tratta di una tragedia che, in quanto tale, non attende il divino dono della redenzione ma rimane chiusa nella durezza di questo mondo: il mondo dei subalterni la cui emancipazione passa attraverso il lavoro e la lotta, verso il riconoscimento che l’appartenenza alla terra, quindi alla natura, costituisce la cifra alta del sentire che l’essere sociale non deriva dalla coscienza, bensì la coscienza deriva dall’essere sociale.

 

Volentieri ripresento qui la recensione apparsa, con lo stesso titolo, sulla rivista L'indice, n. 3 (marzo 2024), alla pagina 24. v.a. 3 marzo 2024.

Luisa Ricaldone

Farsi strumento di memoria

L’ ambiente è la campagna toscana, il tempo è oggi ma anche ieri, il linguaggio è ricco di termini desueti, arcaismi, neologismi e toscanismi e ad esso, che attraverso tratti di parlato mette in luce le modalità espressive del mondo contadino, fa riscontro un ricorso costante a una sorta di bilinguismo che conserva tratti di un linguaggio alto con qualche traccia ottocentesca voluta. Si tratta di un breve romanzo polifonico, nel quale la voce narrante prevalente imposta una narrazione che pare con ogni probabilità fondata su base autobiografica. Ridotte all’osso sono queste le caratteristiche di un romanzo originale, che convoca l’attenzione su un ambito di lavoro noto all’autore e poco o per nulla frequentato dalla narrativa contemporanea: il lavoro dei campi, che permette un discorso di classe, di prevaricazione dei possidenti verso i braccianti, dei potenti nei confronti degli umili, in una parola dei ricchi contro i poveri. Ed è proprio il discorso di classe, che tesse il filo di continuità tra passato, anche arcaico, e il presente della voce narrante di un giovane, a dire che lo sfruttamento, la violenza, l’uso e l’abuso del corpo delle donne e degli uomini, nonché delle piante, dei frutti e della terra investe trasversalmente i tempi e i luoghi e genera morti nelle lotte di popolo indifferentemente fra bianchi, neri o asiatici. Ma queste pagine possiedono anche indizi del romanzo di formazione con al centro un bambino che dà il proprio contributo al lavoro di famiglia e che, da grande, avverte forte il disturbo procurato dai passi dietro la porta “che strappavano via il tempo guadagnato per la lettura”, perché quei passi, che significavano una chiamata a fare altro, erano vissuti come un torto “che mi vietava il godimento della lirica antica”. Ed ecco lo strappo, l’abbandono della casa per dedicarsi a “carte diverse” e consentire alla passione politica di esprimersi. Le parti conclusive esprimono la condanna della guerra, di tutte le guerre, e il forte risentimento nei confronti di coloro che non rinunciano al potere acquisito e subdolamente cacciano gli ultimi fuori dalla storia. Ne è indicatrice la memoria, che è “fatta di nomi, di facce, di luoghi, di storie, di rabbia, di giustizia, di verità”. Ma chi, per nascita, non ha avuto accesso a tutto questo perché privo di parola, di una lingua che contrasti il potere o si metta nelle condizioni per conquistarlo – sono minuscole le “congreghe” che posseggono le parole, “così minuscole da contarsi, ogni cento esseri umani, poco più che sulle dita di una mano” – è spinto ai margini. Sicché troviamo “il grido raccolto dal basso o lo sputo dall’alto lanciato”. Ma vi è un’altra memoria, quella delle piante (che dà il titolo al romanzo), della terra e dei corpi, memoria che apre a considerazioni, che non si sentivano da decenni, sul ruolo degli intellettuali e sulle azioni arendtianamente destinate al bene comune. Per esempio farsi strumento di memoria, come Abati in queste pagine, affinché in futuro non si chieda conto del “perché, parlando d’altro, avete taciuto?”.

Volentieri ripresento qui la recensione apparsa, con lo stesso titolo, sulla rivista Poliscritture, di Ennio Abatev.a. 27 febbraio 2024.

Andrea Nuti

Fra la terra e il cielo della lingua

Storie e meditazioni

Come si legge nella quarta di copertina, La memoria delle piante  di Velio Abati è un romanzo che recupera e intreccia storie di un’umanità prevalentemente contadina, sfruttata e sconfitta ma mai rassegnata, sempre descritta nella inscindibile relazione con la terra e gli animali.  L’autore racconta di questo mondo perché a questo mondo appartiene per ragioni biografiche e di questo mondo intende cogliere le relazioni fra le varie generazioni. Le storie dei personaggi del Podere del Diavolo, di Ruffilla, di Camara, di Lorediano, di Sapìo e Catalina, sono recuperate nella profondità di differenti epoche  attraverso un lavoro di scavo insieme storico, antropologico e quasi archeologico. Lo scrittore le fa riemergere, vuole in ogni modo farle uscire dall’evanescenza del sogno per proporle al lettore nella loro concretezza simbolica di cui sono fatti i nostri pensieri e i nostri corpi e lo fa attraverso la lingua, vera protagonista del romanzo.

La voce dell’io narrante utilizza registri linguistici molto differenti che vanno dalla dimensione popolare e terrigna, sempre altamente nobilitata e amata, fatta di arcaismi, dialettismi,  fino a quella alta ed erudita con richiami letterari, momenti lirici e meditazioni. La mutevolezza e pluralità dei registri linguistici e l’intreccio delle varie storie fanno sì che la lettura non sia di immediata fruibilità e che anzi richieda di essere lettori attenti, desiderosi della relazione e della partecipazione all’avventura creativa. D’altra parte questo è un tratto stilistico di Abati che ritroviamo anche nelle sue opere precedenti, ma è anche il fascino maggiore del romanzo. Il sedimento linguistico e culturale che riemerge ha una profonda connotazione etica è come un mosaico o un dipinto riportati alla luce, che ci interrogano sul rapporto col passato e sul valore, la cura delle parole, soprattutto in una fase storica, la nostra, in cui la decadenza sembra esprimersi soprattutto nella povertà linguistica del presente, fatta di slogan, acronimi, inglesismi, cui si unisce la manipolazione e strumentalizzazione della storia schiacciata sul presente.

La partecipazione attiva del lettore è reclamata dallo scrittore anche dai particolari movimenti dell’io narrante. L’autore mette insieme in questo romanzo, caratterizzato come il precedente Domani da una forte e orgogliosa sperimentazione linguistica, un io narrante e la narrazione collettiva. L’io narrante cambia però frequentemente punto di osservazione;  questo fa sì, come bene scrive Walter Lorenzoni che, “chi legge debba sempre sorvegliare l’atto della lettura e debba mutare costantemente il punto in cui collocarsi perché chiamato di continuo a prendere una posizione morale” rispetto agli ultimi di cui si parla. D’altra parte proprio questa costante ridefinizione del punto di vista di chi legge sembra permettere, come suggerisce Mario Fraschetti, una nuova particolare possibilità, quella cioè di leggere il testo partendo da differenti punti e intrecciando le parti in modi di volta in volta differenti.

Col titolo La memoria delle piante non ci si riferisce dunque solo alla ormai effettiva consapevolezza scientifica della presenza di una memoria nelle piante, ma anche e soprattutto alla stretta dipendenza e corrispondenza fra uomo e natura, alla profondità e complessità delle radici delle piante che si intrecciano e in virtù di questo intreccio e di questa profondità restano vive. La memoria, nel romanzo, non è rievocazione, non è celebrazione, non è pathos emotivo ma radicamento storico intellettuale pensato, rielaborato, conosciuto e fatto riemergere attraverso la lingua. La memoria è la connessione delle generazioni unica possibile base di partenza per una nuova consapevolezza sociale. Come non cogliere la inscindibile relazione temporale fra il futuro di Domani e il passato di La memoria delle piante. In questo senso lo scrivere di Abati è sempre atto insieme etico e politico. La presenza delle radici diventa tanto più esplicita in considerazione di una forte presenza di positive figure paterne, tanto che la parola “babbo” è forse la più utilizzata di tutto il romanzo: “Quali facce, dico, qui con me, mute. O forse il nome sento. Celso?”

Se nel romanzo Domani si apprezzava soprattutto la straordinaria coralità, che, a fronte di un tempo frammentato, emergeva dalla trama linguistica dei suoni e delle voci dei contadini, si godeva di una struttura simbolica che riusciva ad anteporsi alla definizione degli stessi personaggi, diversamente, in questo La memoria delle piante si impongono i momenti di riflessione e meditazione, come quando l’autore riflette sulla verità: “la verità non è docile […] la verità non è pietra, è un fuoco […] la verità ogni verità è storica […] la verità non è un dato è il prodotto della lotta […] Se prendiamo, non dico la storia umana ma l’essere umano, anzi un essere umano, in lui o in lei una mirabile stratificazione dei tempi ci toglie il respiro. Le verità loro proprie hanno durate assai diverse, ma nessuna è fuori del suo tempo”. Lo stesso registro lo si ritrova quando Velio si confronta col tema della libertà, della guerra, della memoria.

Alcune parti poi sono liriche di grande bellezza, soprattutto gli inizi e le conclusioni dei vari capitoli. “Invece il sole è signore del giorno. Asciuga la fronte, fruga i cretti della terra, assalta i sassi dei fossi. L’aria tremola i campi e sbianca le ombre, ma non una cicala, non un filo d’eco dai corpi degli olivi, dal folto dei grani. Nemmeno il mio grido esce di bocca”. L’autore intende provare che lirica, dialoghi, meditazione possono stare insieme, uniti dall’esperienza umana e intellettuale dello stesso scrittore. Le mani della zingara del Caravaggio in copertina sembrano proprio richiamare allo stesso tempo la grazia della scrittura quale lavoro intellettuale, ma anche la parte più concreta e pratica del lavoro della terra, richiamano la capacità di intuire il futuro attraverso le tracce e i solchi del passato; se le mani michelangiolesche della Creazione di Adamo non si toccano perché l’alto e il basso restano inesorabilmente separate, qui invece alto e basso si accarezzano e si sostengono.

 

Volentieri ripresento qui la recensione apparsa, con lo stesso titolo, sul Manifesto del giorno 15 febbraio, a p. 13.. v.a. 19 febbraio 2024.

Tommaso Di Francesco

Un conversario luminoso sul silenzio del tempo

Passato, presente, futuro. Nella sua declinazione il tempo che attraversiamo e che ci attraversa con la non misurabile nostra speranza è così malamente racchiuso nei calendari mentali che va stravolto per dare nuovo senso. Con questa intenzione e intuizione poetica il romanzo di Velio  Abati, La memoria delle piante (Manni editori, pp. 106, 15 euro) rompe scientemente questo codice e si propone come un “conversario” interiore, insieme doloroso, luminoso e necessario, sull’ordine del tempo presente, e soprattutto sui protagonisti nascosti del suo percorso apparentemente caotico e ripetitivo. S’interroga infatti l’autore: “Perché non cessa la ventola sul pozzo il lamento, soffocato ai mobili, al letto, ai muri?”. Urge dunque una radicalità di scrittura che si apra al dialogo, alla conversazione con i protagonisti rintanati nelle pieghe dei giorni e della Storia, nelle cui esistenze l’autore si immedesima nella forma evocativa della contemporaneità delle ere, di tutte le epoche del mondo contratte lì sul suo scrittoio - scrittoio che, nella folgorante immagine che propone, insieme al comando sul lavoro e alla violenza, è stato ed è anche lo strumento dei potenti contro il mondo degli ultimi, degli umili persi nelle trame familiari, sottomessi al lavoro subalterno comprato dalle mani dei profittatori di sempre. Inevitabile il riferimento alle opere precedenti di Velio Abati, quella memoriale dei racconti di Fughe del 2020, e il grande affresco contadino di Domani del 2013, scritto nel recupero scientemente anacronistico di una lingua parlata contadina, il parlato otto-novecentesco maremmano, una lingua primigenia osata non come “sperimentazione” letteraria ma come pratica e riscatto linguistico.

Con La memoria delle piante siamo al consuntivo di una proposta che trascende la letteratura e si propone come interpretazione e proposta di pensiero, perché “solo la finzione di un ritmo identico, con cui ci affanniamo a dare ordine nella conduzione quotidiana o nelle vicende collettive, nasconde alla percezione comune la molteplicità dei tempi”. Abati immagina che uno scavo archeologico, a strati, della realtà travolga la nostra stanca routine che cancella perfino il passato prossimo, per diventare scoperta di vestigia umane e naturali, non solo non passate ma attorno a noi vive e “vegete”, quelle “dei più disperati”, della loro rivolta e resistenza per essere adeguati al presente dove, in conclusione del testo, viene enunciato il micidiale ritorno della guerra che ormai non ha più bisogno dell’umano per innescarsi. Il personaggio che cammina nelle pagine è consapevole di portare nella sua saccoccia di bracciante l’intero portato dele sconfitte storiche e delle violenze che l’hanno caratterizzate. L’attesa nelle campagne, avendo come osservatorio un “Podere del diavolo” dove le infanzie dei secoli sembrano esserci consumate pur restando attive,   così diventa quella dei contadini dell’ottocento, poi quelli del novecento ma prima ancora quelli delle capanne protostoriche, e poi romane e medioevali, da Ruffilla indifesa al razziatore Geberico, dai nomi degli animali  Bellapenna e Giardiniere,  a Celso di cui ha abbracciato in moto l’affidabile, paterna forza delle spalle, per una famiglia allargata che trascende i millenni; sui quali incombe la litania di devastazioni delle scorribande dei dominanti, mischiando consapevolmente vandali e milizie nere dispensatrici di “bella morte” al soldo dei padroni, tutti gli armati che “ci presero in consegna”; ma anche le primavere e le liberazioni, i cui morti “non sono scomparsi, assiepano le nostre piazze, vegliano le nostre stanze, sanno che qualcuno li ascolta. Un giorno altri parleranno con loro”.

Sorprende, da lasciare senza fiato, la rottura dei generi. Se finora il silenzio era da considerare come la strategia della poesia, secondo i dettami di Zanzotto, a Velio Abati, con questo romanzo di pensiero e una scrittura evocativa che perfora l’attualità disadorna e vuota, piace pensare che il silenzio abbia profonda forma e voce narrante, se commisurato alla bugia di pensare che la natura sia muta. Lì invece torna non più solo lo sguardo ma l’ascolto, dietro la siepe leopardiana a cogliere il nome e il canto della miriade di uccelli così sereno ed epifanico, frammisto com’è nella sua ostinazione comunicativa, a ninnananne, ottave rime, ballate popolari. Rivelando alla fine che “Non c’è silenzio, Quando una voce umana, come ora, è svanita e nessun suono animale o di vivente muove l’aria, affiora a coprire l’eco del tuo polso, il soffio lieve del pino. Lo sento, alle mie spalle, alto dietro il cantone di casa, il respiro dei meriggi....medesimo nel rosario degli anni, quando altri di cui mai saprò, che nessuno sforzo d’immaginazione, nessun sospetto minimamente avvicina, vi si fermeranno sorpresi, nel passaggio uguale e diverso”. Lo scavo di Velio Abati, il “porcospino” secondo le parole affettive delle bambine con cui ha giocato, si autorappresenta  lì dove l’umano vi si nasconde, come “buche nella terra, tra solitudini mai rassegnate, germogli di affetti, di legami, di amicizie. Alla rinfusa, in movimenti e stanzialità senza origini apparenti, si compongono, si sovrappongono, micromondi di umanità che tenaci valicano lingue con  gesti e suoni , fossero solo quelli del comando”. Ed è annuncio rivelatore che germoglia un altro presente, una dichiarazione di verità, visto che l’uomo vale per quello che sa. Non riposi dunque il vincitore né disperi lo sconfitto, perché la verità è data dall’”irruzione del servo dal fuoriscena”.

 

Volentieri ripresento qui la recensione apparsa, con lo stesso titolo, su Odissea di Angelo Gaccione. v.a. 5 febbraio 2024

Walter Lorenzoni

La memoria delle piante

 

Dalla lettura del nuovo libro di Velio Abati, La memoria delle piante (Manni, 2023), emerge una postura narrativa che rimanda senz’altro al suo precedente romanzo storico del 2013, intitolato Domani (Manni): il linguaggio, le cesure spaziali e temporali, i referenti sociali ed altro ancora. Come lì, anche qui uno degli elementi di forza della narrazione è la coralità. Però – ed ecco la principale differenza –, mentre in Domani, sotto il profilo narratologico, si adottava un punto di vista diffuso e collettivo, che partiva dal basso e si spostava in ragione dei personaggi e degli ambienti, in La memoria delle piante la scelta è diventata quella di un io narrante – che può essere maschile o femminile e variare secondo i tempi e i luoghi – che si fa carico in prima persona della storia degli sfruttati e degli oppressi di ogni epoca (dall’antichità al tempo presente), in un movimento di immersione e riemersione che sembra voler cercare, e laddove necessario ricucire, la fitta rete di legami e connessioni (a cui allude il titolo per sottolinearne la solidità e la pervasività) che si dipanano nel corso del tempo in un processo ricorrente di presa di consapevolezza di sé da parte dei subalterni.
Dopo il carattere fortemente sperimentale di Domani, si potrebbe pensare ad una sorta di iniziale ritorno all’ordine, ma non credo sia così, anzi penso che Abati voglia proseguire la sua sperimentazione, cercando nuove ed originali soluzioni narrative. Per capire meglio questo passaggio dobbiamo tener presente il più recente volume di prose (racconti, ritratti di personaggi, riflessioni di tipo saggistico) pubblicato dall’autore nel 2020 e intitolato Fughe (Manni), dove, per motivi legati alla particolare tipologia dei testi e delle circostanze della loro scrittura, l’impianto narratologico aveva un’impronta più tradizionale. La memoria delle piante vuole, quindi, provare a guadagnare una nuova consapevolezza del punto di vista narrativo, facendo una sintesi tra diverse forme del raccontare che consiste nel mettere insieme, questa volta, un io narrante ed una narrazione collettiva.

Anche qui, come già in Domani, si richiede sempre, comunque, una partecipazione attenta del lettore, chiamato a muoversi incessantemente tra il cambio delle prospettive di osservazione e dei narratori, secondo un procedere in cui la mancanza di cesure tra scene diverse e differenti livelli temporali diventa una delle cifre stilistiche dell’autore, che è segno, però, non solo di una scelta estetica, ma, soprattutto, di un’intenzione marcatamente etica e pedagogica: chi legge deve sempre sorvegliare l’atto della lettura e deve mutare costantemente il punto in cui collocarsi, perché chiamato di continuo a prendere una posizione morale.
Ma chi è il protagonista di questa nuova modalità narrativa? Si tratta di un protagonista collettivo: le classi subalterne, in prevalenza rurali, che fin dalla notte dei tempi sono state sfruttate e umiliate, ma che non si sono mai arrese e, attraverso i fili della memoria, hanno provato a prendere, via via, coscienza di sé. I motivi di tale scelta – l’autore ha avuto modo di ricordarcelo in tutta la sua produzione precedente – sono di natura ideologico-culturale e poi, soprattutto per quel che riguarda il legame viscerale con il mondo della campagna, biografici.
Della storia e della memoria di queste classi subalterne, come già osservato, si occupa il narratore, che si assume la responsabilità, non senza una qualche intrinseca contraddittorietà, di parlare per conto di chi non lo può fare. Tuttavia, l’esigenza di salvare la memoria va oltre l’urgenza, abbastanza scontata, di resistere all’eterno presente in cui siamo costretti a vivere e punta, invece, in modo più sostanziale, alla realizzazione di legami profondi e condivisi, costruiti sul riconoscimento di un fondamento comune e sulla conseguente necessità della trasmissione intergenerazionale delle esperienze passate, secondo una logica chiaramente pedagogica.

Anche in questo romanzo, pertanto, ricompare uno dei leitmotiv di tutta l’opera letteraria di Velio Abati, l’idea della continuità tra le generazioni. In molti dei personaggi raccontati nelle prose di Fughe emergeva, per precise ragioni storico-biografiche, un insistito e reiterato tentativo di rompere radicalmente con la generazione dei padri e dei nonni per riuscire meglio a definirsi compiutamente nella propria autonomia. L’esito, ad ogni buon conto, risultava essere quello negativo dell’inautenticità e della sconfitta, che, al di là della peculiare congiuntura storico-politica, diventava esistenziale. Per Abati – e La memoria delle piante lo riconferma – anche le rotture generazionali apparentemente più dure e radicali si ricompongono nei tempi lunghi della storia e nei percorsi carsici della memoria che creano un insieme di relazioni e di corrispondenze, che potremmo definire antropologico, capace di riassorbire le contingenze storiche.
Infine, un’ultima considerazione sulla lingua. Nella prosa intensa e complessa del libro osserviamo una molteplicità di stili e di registri linguistici (dal lirico all’epico, dal solenne al popolare) che risulta funzionale alla varietà dei personaggi e delle situazioni spaziali e temporali. A prevalere è l’uso del dialetto toscano che, fuori da ogni bozzettismo – ricorrendo, da un lato, alla tradizione letteraria, in particolare la Commedia dantesca, e, dall’altro, alla memoria orale familiare –, recupera parole, espressioni, modi di dire arcaici che nella loro precisione ed essenzialità, insieme anche ad altre scelte espressive più o meno tradizionali o sperimentali, non fanno altro che assecondare, sul piano linguistico, il lavoro di scavo più ampio condotto intorno alla memoria delle classi subalterne.

 

Volentieri trascrivo la nota apparsa su Convenzionale di Gabriele Ottaviani. 18 gennaio 2024, v.a.

Grabriele Ottaviani

La memoria delle piante, Velio Abati, Manni. Intenso, corale, coinvolgente, ricco di livelli di lettura, sfumature e chiavi d’interpretazione, il romanzo attraversa con grazia e potenza lo spazio e il tempo narrando, nel contesto del naturale ciclo degli eventi, il destino degli uomini e dell’ambiente, messo a dura prova dalla protervia dello sfruttatore: da leggere.

 

Volentieri ripresento qui il commento allo scritto di Rappazzo di Annamaria Locatelli apparso su Poliscritturev.a. 8 gennaio 2024

Annamaria Locatelli

Sulla Memoria delle piante

Velio Abati, uno scrittore letto piu’ volte su Poliscritture blog ma anche su un numero della Rivista Poliscritture, una breve opera teatrale, Sera di primavera. Le protagoniste sono due donne, madre e figlia, a vivere una stagione fredda di pioggia ininterrotta e di duro lavoro per la sopravvivenza…la speranza poggia sul loro intenso rapporto affettivo e su una carta da parati (o tendaggio) fiorato, promessa di primavera…anche se per la madre non arriverà mai, una speranza oltre. Il messaggio mi sembra presente anche in questo ultimo romanzo di V.A. : La memoria delle Piante. “…Delle rughe della terra. Del corpo di chi passa per strada. E’ nelle parole che senza fatica conosci. Nei colori…”, un romanzo dei primordi e odierno nello stesso tempo, presentato molto bene da Felice Rappazzo che mette in evidenza anche il linguaggio arcaico poetico dell’autore, trasversale e universale da tempi remoti come per un oggi di migranti poveri, di persone senza padre, senza radici e terra.. Tutti ad attingere, nella speranza, alla “memoria delle piante”, che non riconosce confini e parte dal basso… Un pensiero simile a quello degli indiani d’America

 

 

Volentieri ripresento qui, la recensione di Felice Rappazzo uscita, leggermente variata e con il medesimo titolo, su Argo. 7 gennaio 2024, v.a.

Felice Rappazzo

Sfruttati ed emarginati di ieri e di oggi. Un romanzo corale

Splendide campagne di frutti e cibi ricercati dai palazzi del mondo sono, per chi lì strappa per sé l’acqua e il pane a genitori e figli distanti, terre agre dove si spalanca lo sfruttamento, la violenza, l’uso del corpo di donne e di uomini, di piante, di frutti, di terra. Vi resistono, in rifugi tra lamiere raccattate e cascami di plastica, nelle stalle degli animali, in buche scavate nella terra, tra solitudini mai rassegnate, germogli di affetti, di legami, di amicizie.

Quello che avete letto è il passo di un breve e denso romanzo (a p. 28), che propongo ai lettori di «Argo», perché la lettura può diventare un atto di impegno morale e significativo, di resistenza alla trasformazione dei valori umani e collettivi in violenza e merce. Nel passo si rappresentano il lavoro e gli insediamenti di un gruppo di immigrati o comunque di diseredati in una qualche campagna; ma si intravedono anche altri temi, e altri tempi. Cercherò di spiegarne il senso.

Il romanzo ha il titolo La memoria delle piante (ci torneremo), è pubblicato nell’anno 2023 dall’editore Manni (Lecce) e ne è autore Velio Abati. Insegnante, critico e organizzatore culturale nella sua Grosseto, radicato nella storia contadina della Maremma, Velio ha sempre coltivato anche la scrittura creativa, su una base di memoria che non viene meno, anzi si addensa, in queste poco più che cento pagine. La densità sta nel fatto che la sua prosa, qua e là un po’ difficile nel lessico arcaico e locale e nella sintassi in apparenza divagante, ha sempre uno spessore di riflessione.

Il romanzo non ha un protagonista, e neanche una voce dominante. Protagonisti sono i gruppi umani, talvolta dei ragazzi, scolari o contadini, le masse e gli individui diseredati, i lavoratori dei campi e dei boschi, che si ripropongono come soggetti della storia, quasi risorgendo dal nulla di volta in volta: «tornare» è infatti il verbo con cui si apre e chiude il romanzo.

Ma conta anche il fatto che le voci di chi racconta rappresentano coloro che vivono dure o marginali esperienze, realistiche o immaginarie; e – ancor di più – che nelle vicende si snoda una sorta di “storia delle vittime” (è un titolo del poeta Alfonso Gatto), che parte dalla prima o recente modernità, dagli anni cinquanta (o da prima ancora) del secolo scorso, e poi si muove in apparente disordine.

Si sposta all’indietro, in imprecisati luoghi e tempi del mondo antico, là dove e quando vivevano, anche in Italia, i culti delle dea Iside o di altre divinità “pagane”; o ancora in tempi che appaiono medievali); o si sposta in avanti, fino ai nostri giorni, nei quali le vittime sono migranti, lavoratori dei campi organizzati da sfruttatori, “caporali” e padroni occulti.

L’autore vuol presentarci una continuità ideale fra sfruttati ed emarginati di ieri e di oggi, sotto un potere anonimo e viscido; un potere che si esercita in maniera diretta sui corpi dei dominati e pretende di essere “civiltà”. In questo modo la violenza e la sopraffazione sono rese invisibili.

Nel brano che abbiamo citato all’inizio, la voce di un giovane lavoratore-intellettuale si trasforma nelle vicende di un compagno, migrante, scomparso da qualche giorno; e nell’autodifesa di un astuto “caporale”. Dello scomparso non si saprà nulla.

Le parti più ampie sono tuttavia riconducibili ad anni in cui quelli come me erano ragazzi o bambini, gli anni Cinquanta intendo, o a quelle dei genitori e nonni: i lavori nei campi, la fame, il piccolo orizzonte morale e culturale, ne sono lo sfondo, non dissimile da quello di ieri o di oggi.

Ma, accanto a quella povertà, si sviluppa una forte socialità, una grande vitalità generale, un’apertura al futuro. Il luogo più rappresentato è infatti la scuola; là dove bambini e bambine, ragazzetti, s’incrociano e scambiano, non sempre in maniera armonica, esperienze e affetti. Qui, come prima, vive una sorta di memoria autobiografica, certo di una generazione. Ma l’autobiografia è resa attraverso la voce e l’esperienza diretta di un mondo scomparso da parte di chi ne è stato, qualche decennio fa, ragazzetto, anche protagonista. Certe pagine – il lavoro nei campi, il mercato degli animali, mondi duri ma anche comunitari – non si possono scrivere senza una precisa conoscenza, un reale coinvolgimento emotivo.

Mi dispiace non poter andare più a fondo nella illustrazione del testo, nelle sue proiezioni nel tempo e nei suoi scavi linguistici. La lingua, quando è arcaizzante, ricostruisce e ripresenta mondi e civiltà, relazioni scomparse, possibilità ed esperienze scartate e rimosse dal tempo e dal dominio.

Preferisco concludere con un secondo passo, posto al termine del romanzo, quello in cui la voce narrante, probabilmente quella autoriale, mette in scena un momento di lutto (la morte e il funerale di un padre, quasi certamente), allargando l’accoramento personale per la scomparsa della persona cara, il dolore che non si può manifestare, per chi «per geografia, etnia, sesso, lingua, condizione sociale, religione […] non ha avuto storia, nome, faccia e persino luoghi». Per costoro non c’è neanche la memoria.

L’accoramento e l’indignazione tuttavia lasciano spazio anche alla vita e alla speranza. Ed è qui, nel passo col quale concludo e che traggo da una delle ultime intensissime pagine del libro, l’espressione scelta per il titolo, che a questo punto si spiega da solo come forza di resistenza vitale che viene dal basso:

Però c’è un’altra memoria, altra vita germoglia, che chi domina conosce assai bene, nonostante che con altri nomi la dica, perché in essa ha radici e, se interrogato, la tratti non diversamente da ossa del paleontologo. È la stessa memoria delle piante, delle rughe della terra, del corpo di chi passa per strada. È nelle parole che senza fatica conosci, nei colori che vedi nella levata del sole, nell’occhio che guarda chi incontri.

 

 

Volentieri ripresento di seguito la recensione pubblicata con lo stesso titolo su "Poliscritture"  di Ennio Abate. v.a. 4 gennaio 2024

Felice Rappazzo

La memoria delle piante, di Velio Abati

Splendide campagne di frutti e cibi ricercati dai palazzi del mondo sono, per chi lì strappa per sé l’acqua e il pane a genitori e figli distanti, terre agre dove si spalanca lo sfruttamento, la violenza, l’uso del corpo di donne e di uomini, di piante, di frutti, di terra. Vi resistono, in rifugi tra lamiere raccattate e cascami di plastica, nelle stalle degli animali, in buche scavate nella terra, tra solitudini mai rassegnate, germogli di affetti, di legami, di amicizie.

È, questo, il passo di un breve e denso romanzo (a p. 28), la cui lettura può anche diventare un atto etico-politico di resistenza alla commutazione dei valori umani e collettivi in violenza e valore-merce. Vi si rappresenta il lavoro e gli insediamenti di un gruppo di immigrati o di diseredati in una qualche campagna; ma trapelano anche altri temi, e altri tempi.

Il romanzo reca il titolo La memoria delle piante (ci torneremo), è pubblicato nell’anno 2023 dall’editore Manni (Lecce) e ne è autore Velio Abati; insegnante, critico e organizzatore culturale nella sua Grosseto, radicato nella storia contadina della Maremma, l’autore ha sempre coltivato anche la scrittura creativa, su una base memoriale e poetica che non viene meno, anzi si raddensa, in queste poco più che cento pagine. La densità sta nel fatto che la sua prosa, qua e là appena difficile nel lessico arcaico e locale e nella sintassi pur in apparenza divagante, ha sempre uno spessore verticale, saggistico e morale, in tutte le sue sfaccettature.

Non troviamo un protagonista, e neanche un’unica voce dominante. Protagoniste sono le aggregazioni umane, talvolta di ragazzi, scolari o contadini, le masse e gli individui diseredati, quasi piombati per caso sulla terra, i lavoratori dei campi e dei boschi, che si ripropongono come soggetti della storia, quasi risorgendo dal nulla di volta in volta («tornare» è il verbo-chiave con cui si apre e chiude il romanzo). Ma conta anche il fatto che le voci di chi racconta rappresentano i soggetti che vivono dure o comunque marginali esperienze, quando realistiche, quando immaginarie; e – ancor di più – che nelle vicende si snoda una sorta di “storia delle vittime” (è un titolo del poeta Alfonso Gatto), che dalla prima o recente modernità, dagli anni fra i venti e i cinquanta (o da prima ancora) del secolo scorso, si sposta in apparente disordine all’indietro (in imprecisati luoghi e tempi del mondo antico, là dove e quando vivevano, anche in Italia, i culti delle dea Iside o di altre divinità “pagane”; o ancora in tempi che appaiono medievali), o in avanti, fino ai nostri giorni, nei quali le vittime sono migranti, lavoratori dei campi inquadrati da sfruttatori, “caporali” e padroni occulti; insomma comprendiamo che l’autore vuol presentarci una continuità ideale fra spossessati e marginali di ieri e di oggi, e, dietro ad essi, la continuità del potere sempre brutale, spesso anonimo e viscido; un potere che si esercita in maniera diretta sui corpi dei dominati  e si dissimula in trionfante “civiltà”, nella quale la violenza e la sopraffazione sono occultate. Nel brano che abbiamo citato all’inizio, la voce di un giovane lavoratore-intellettuale sfuma nelle vicende di un compagno, migrante, scomparso; e nell’autodifesa grottesca di un astuto “caporale”. Dello scomparso non si saprà nulla.

Le parti più ampie sono tuttavia riconducibili ad anni in cui quelli come me erano ragazzi o bambini, gli anni Cinquanta intendo, o a quelle dei genitori e nonni: i lavori nei campi, la fame, la miseria morale e culturale, ne sono lo sfondo, non dissimile, per l’appunto, da quello di ieri o di oggi. Ma, accanto a quella povertà, si sviluppa una forte socialità, una grande vitalità generale, un’apertura al futuro. Il luogo più rappresentato è infatti la scuola; là dove bambini e bambine, ragazzetti, s’incrociano e scambiano, non sempre in maniera armonica, esperienze e affetti. S’intende che, qui come prima, vive una sorta di memoria autobiografica, certo di una generazione. Si sente quasi il profumo culturale della Scuola di Barbiana. Ma l’autobiografia appare tutt’altro che di studio, è invece individualizzata attraverso la voce e l’esperienza diretta di un mondo scomparso da parte di chi ne è stato, qualche decennio fa, giovinetto, anche protagonista. Certe pagine – il lavoro nei campi, il mercato degli animali, mondi duri ma anche comunitari – non si possono scrivere senza una precisa conoscenza, un memore coinvolgimento emotivo.

Spiace non poter andare più a fondo nella illustrazione del testo, nelle sue proiezioni nel tempo e nei suoi scavi linguistici; occorre tuttavia segnalare almeno che la lingua, quando è arcaizzante, ricostruisce e ripresenta mondi e civiltà, relazioni scomparse, possibilità ed esperienze scartate e rimosse dal tempo e dal dominio; e il plurilinguismo che ne scaturisce è una forma di recupero e straniamento a un tempo, una sorta di multiversum culturale.

Voglio concludere con un secondo passo, posto al termine del romanzo, quello in cui la voce narrante, probabilmente quella autoriale, mette in scena un momento di lutto (la morte e il funerale di un padre, quasi certamente), allargando l’accoramento personale per la scomparsa della persona cara a quello, che non si può manifestare, per chi «per geografia, etnia, sesso, lingua, condizione sociale, religione […] non ha avuto storia, nome, faccia e persino luoghi». Per costoro non c’è neanche la memoria. L’accoramento e l’indignazione tuttavia lasciano lo spazio anche ad uno spazio di vita, di speranza, ad un «tornare» che significa esserci comunque, rivivere. Ed è qui, nel passo col quale concludo e che traggo da una delle ultime intensissime pagine del libro, l’espressione scelta per il titolo, che a questo punto, credo, si spiega da solo come forza di resistenza vitale che viene dal basso:

Però c’è un’altra memoria, altra vita germoglia, che chi domina conosce assai bene, nonostante che con altri nomi la dica, perché in essa ha radici e, se interrogato, la tratti non diversamente da ossa del paleontologo. È la stessa memoria delle piante, delle rughe della terra, del corpo di chi passa per strada. È nelle parole che senza fatica conosci, nei colori che vedi nella levata del sole, nell’occhio che guarda chi incontri.

 

 

Volentieri ripresento di seguito la recensione pubblicata con lo stesso titolo sul n. 31 (gennaio 2024) di "Nautilus" . v.a. 3 gennaio 2024

Francesco Serino

La memoria delle piante di Velio Abati

“Dunque sono tornato”.
Inizia con una congiunzione questo piccolo e denso libro di Velio Abati, da poco pubblicato per Manni. È una felicissima idea quella di usare la letteratura come fosse una sorta di approdo del racconto orale, una materializzazione, quell’alchimia in cui sentimenti, ricordi, visioni, ma anche illusioni, speranze, si fondono e si lasciano scivolare nella lingua scritta.
Questo “dunque”, perciò, è simbolo di umiltà e saggezza, ma soprattutto di meraviglia, perché la memoria, in fondo, è sempre foriera di bellezza.
Velio Abati scrive su una corda tesa. È raro incontrare una prosa tanto vibrante, tanto elaborata, dove anche la punteggiatura acquisisce significato, dove perfino la spaziatura tra i paragrafi segue intelligenti scelte di respiro. È una Natura, quella narrata ne La memoria delle piante, che si nutre della complessità, la stessa complessità che risiede ontologicamente nelle viscere del mondo e dell’essere umano. Ed è l’essere umano in quanto tale la fonte alla quale Abati rivolge la sua attenzione come uno studioso all’interno del Grande Archivio che si apre davanti agli occhi dal protagonista, fatto di retaggi ancestrali e di un futuro rappacificante.
Abati ne analizza dettagli raccontando memorie tramandate (sono storie eterne?), pulsando di gioia mentre riannoda i fili del passato, ponendosi domande degne di risposta. Eppure, in qualche modo il libro ha un narrare per echi, per lampi quasi inafferrabili, e vive per questo di un’energia propria, la cui armonia si percepisce solo dopo averlo lasciato decantare in silenzio.
Abati compie un esercizio stilistico che è una vera e propria poetica. Ed anche qui, è insolito che un autore si confronti con la lingua madre con tanta energia. Si tratta di un libro, questo, difficilmente classificabile. È un libro tecnicamente ostico, ed è fuorviante parlarne come fosse un romanzo, sebbene lo sia, perché alla lunga guadagna il fascino (anche estetico) del poema epico, a volte dell’inno, e lo fa utilizzando la lingua in modo pregnante. La lingua e il “parlato”, che diviene nello scritto testimonianza di una specie di “antropologia della semantica”. C’è questo aspetto, più di ogni altro, che dona al testo un motivo di riflessione: l’utilizzo di termini dialettali come strumento di universalizzazione della lingua piuttosto che di circoscrizione. Il valore essenziale di certe parole, come di certi gesti, di certe esperienze accumulate dalle generazioni tra i fuochi ardenti della Storia, nei sudori del pianto e nel suono delle risa dei bambini che si rincorrono tra i solstizi e gli equinozi. 
Eccolo, il mondo di Abati, un mondo rurale definito con la finezza della miniatura. E alla fine, in un compimento che ha il germe del nuovo inizio, il narratore accoglie ciò che lo scritto ha seminato nel dispiegarsi delle pagine e che, in fondo, non è altro che Tempo, insopprimibile compagno di vita.
“Dunque siamo tornati.
Le cataste della legna, dall’inverno smacchiata alla proda, vengono portate via. Al vento fresco di marzo, il grano cresce silenzioso. Nei campi il verde è intenso.”
Sarebbe bello insegnare ai nostri figli a costruire immagini così evocative e complesse, perché in questo folle mondo c’è bisogno di deflagrazioni, di rivoluzioni cognitive.

 

Volentieri ripresento di seguito la recensione che l'autore ha pubblicato con lo stesso titolo sul suo blog, v.a. 19 dicembre 2023

Giuseppe Mainardi

La storia nella lingua degli ultimi

Questo interessante lavoro di Velio Abati, La memoria delle piante appartiene a una categoria letteraria che, se definibile in termini di musica “progressive”, potrebbe essere inclusa nella lista fortunata dei “concept album”, una compilazione di brani che hanno tratti comuni per stile e contenuto, insieme formano una unità significativa e interpretativa. La costante necessaria è la cronaca, la storia che inquadra la vita e le vicende degli “ultimi”, delle categorie sociali più umili cui viene data voce in passaggi vissuti nel tempo e nello spazio. Molto interessante è l’uso della lingua adottato nel romanzo di Velio che trova modalità espressive di alto contenuto filosofico e poetico, insieme ad altre che riprendono espressioni quotidiane popolari di un dialetto toscano, molteplice nella sua fonetica e sintassi, riconducibile forse alla specificità amiatina, riscontrabile anche in alcune poesie di Mario Luzi, ma forse anche a un contesto gergale più ampio.

Trovo alcuni importanti momenti di raccordo del romanzo con una produzione recente della scrittore insieme a due suoi sodali, Roberto Bongini e Lelio La Porta, con titolo Note per un trittico. In quest’ultima opera piccola per numero di pagine, ma non per significato, si affronta il tema della storia, decisivo in termini filosofici, partendo dal modello di creazione Plotinina cui stabilì una connessione importante Agostino in piena consonanza con Platone.

Attraverso alcuni passaggi, Abati stabilisce un concetto di storia che supera la visione legata al rapporto bene-male, ancorata a concezioni ascetiche. La supera inoltrandosi nella vita come storia in cui l’uomo comprende, soffre, ma trae elementi di esperienza, di testimonianza diretta, di solidarietà fra gli umili, di rapporto vivo con il mondo e la sua molteplicità. La descrizione poetica della natura, senza la retorica in cui è facile cadere, mostra una compartecipazione all’elemento fisico, al succedersi delle stagioni, alle notti fredde e ai soli estivi, così come ai venti lievi delle primavere, seguendo il ritmo che fornisce la vita. Che cosa è in fondo l’agricoltura, sostiene l’autore in un suo passo, se non la raccolta di saperi maturati nei millenni, perpetuati nel presente da una pratica continua che ha insegnato a distinguere ciò che soddisfa i bisogni e, al contrario, ciò che li nega nella penuria di cibo.

La verità, se ne esiste una, è da trovarsi nella natura delle piante, indicata nel titolo, che assorbono le novità del linguaggio naturale, lo interpretano, così come gli uomini e le donne che vivono in mezzo alle loro difficoltà, sanno comprenderle, riconoscono la forza e insieme l’arroganza dei dominanti.

L’ultima parte ha un valore del tutto speciale: un inno che potrebbe costituire un recitativo, un invito alla musica e alla sua forza sulle parole stesse.